Gattari da legare: Terapia e pallottole di pelo
Il gatto come psicoterapeuta: le sedute di una gattara
Quando sono stanca, pensierosa, e sento la necessità di chiarirmi le idee, senza quasi rendermene conto afferro il primo dei miei gatti e lo coccolo finché uno dei due non si addormenta. Credo che la mia costante necessità di avere gatti sia un egoistico istinto a non rinunciare alla mia psicoterapia. Qualche mese fa una gatta randagia (che brutto termine!) che passava ogni tanto di qua, pensò bene di portare i cuccioli appena partoriti. Prima di pensare alla sterilizzazione, dovevo pensare ai cuccioli. Dopo qualche settimana, uno di loro si ammalò: nulla di grave, una bella infreddatura che sarebbe andata via con una medicina.
I medicinali, però, vanno dati rispettando dei tempi precisi e, in caso di gattini non domestici, riuscire a stanare e a prendere quello giusto e somministrargli il farmaco a orari può diventare difficoltoso: richiede tempo. Bene, a causa del mio lavoro, questo tempo io non l’avevo. E così, in una delle mie rare giornate libere, riuscii a prendere il gattino, che si addormentò beato sulle mie gambe. E presi la decisione: mi sarei licenziata. Naturalmente, non mi sono licenziata per dare la medicina al gatto: odiavo quel lavoro per una serie di motivi, ma quello era il motivo che aveva fatto traboccare il vaso. Se non potevo curare un gatto, non avevo il tempo per curare nemmeno me stessa o chi mi stava accanto. Sono convinta che la decisione presa fosse quella giusta, e mi ha aiutata a prenderla un gattino minuscolo.
Quando studiavo all’università, ho dovuto sostenere esami difficili e, spesso, inutili: quando mi sentivo giù, accarezzavo una delle mie gatte, quella più “malconcia”. Abbandonata dalla madre, l’avevo salvata con una caparbietà che ancora oggi mi sorprende, e l’avevo viziata come spesso si fa coi figli adottivi. La micia odiava che la lasciassi nel bel mezzo di una seduta di coccole, e mi afferrava la mano con gli artigli appena accennavo a muovermi. Allora, ridendo, le dicevo che la mamma doveva andare a studiare per darle un futuro migliore. La fissavo negli occhioni e lei, contrariata, mi dava le spalle, mentre io mi alzavo un po’ più sollevata.
Oggi, nervosa perché avevo avuto mio malgrado a che fare con vecchie conoscenze, mi aggiravo per casa cercando un pretesto per litigare con chiunque. Poi, senza volerlo, sono uscita in giardino, al sole, e ho cominciato ad accarezzare i gatti. Allora ho cominciato a pensare ai ricordi brutti o fastidiosi, e mi è venuto in mente che avere a che fare con alcune persone della mia adolescenza era come leggere una traduzione molto cheap de La Fiera della Vanità (sapete, andavo in un liceo molto snob). La differenza è che io adesso sono una traduttrice, e che dopo tutti questi anni riconosco una cattiva traduzione a un miglio di distanza: forse non sono stata io a dare un futuro migliore alla mia gattina, ma di sicuro lei e tutti i gatti della mia vita lo hanno dato a me. E per favore: se anche voi avete libro tradotto male in casa, buttatelo nella differenziata e correte a coccolare i vostri psicoterapeuti pelosi.
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