Gattari da legare: L’ordine (monastico) dei gattari
Recentemente qualcuno, riferendosi al mio atteggiamento verso i gatti, si è stupito della mia pazienza. In realtà, però, non si tratta di questa divina virtù, bensì di impotenza.
Quando un gatto decide di effettuare sortite sul tavolo della cucina, venendo messo giù e saltando di nuovo appena tocca terra, io mi arrendo, finché lo stesso non si stufa di questa attività di sfida- gioco e io posso fermarmi, bontà sua.
Il ripetere lo stesso gesto nelle stesse condizioni aspettando che il risultato cambi, è sintomo di follia. Ma io non sono pazza, né lo sono i miei gatti: recitiamo un ruolo. Loro sfidano la mia autorità giocando, io limito i danni. Non quelli alla mia schiena, certo, ma quelli derivanti da un uso massiccio di candeggina per pulire il posto dove mangio.
Se scavano in una pianta, posso proteggere il terreno con una rete (ma solo fino a quando i mici non riusciranno a sollevarla), ma non posso far sparire tutti i mobili. Al gatto, in realtà, basta il primo salto per capire che sul tavolo non c’è nulla di interessante, ma gliene servono dieci ripetuti per farmi capire chi comanda.
L’accettazione della loro autorità non mi provoca alcuna crisi di autodeterminazione: il possesso del territorio è un fatto aleatorio, e ho già scritto che, secondo me, i gatti ci innalzano spiritualmente, facendoci rinunciare a ogni possesso terreno. Hai una bella lampada? Distrutta. Un vaso particolarmente elegante? In frantumi. Un tappeto costoso? No, brandelli che furono preziosi.
In quest’epoca di papi gesuiti, che seguono papi gattofili, anche noi gattari rientriamo di diritto negli ordini monastici, facendo voto di obbedienza e povertà (la castità, almeno, tocca ai mici, grazie alla sterilizzazione). I miei pavimenti piene di impronte fangose mi ricordano che l’uomo non ha il controllo su tutto, e i miei esercizi spirituali sono l’accettazione di un volere superiore. Quello dei miei gatti.
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